mercoledì 18 dicembre 2013

Sguardi e pensieri ad un Castello in frantumi - Castello di Calatubo, Alcamo


Ho sempre avuto uno sguardo su questo Castello, sin da quando ero bambina.
Non ho mai visto con i miei occhi però i suoi resti, ne potuto assaporare l'atmosfera che lo avvolge, finchè non mi si è presentata un'occasione concreta per potermici avvicinare sul serio guidata da chi ha saputo affascinarmi con storie, leggende... curiosità. 

Esattamente come immaginavo, ne sono rimasta  incantata... le stanze prive di soffitto e ormai invase da vegetali, la straordinaria veduta che lascia senza fiato, il silenzio ovattato nel quale ci si può perdere in riflessioni senza fine, la luce che filtra e disegna ai miei occhi forme immediate di fantasie remote, il mistero che vi aleggia attorno.... tutto così incredibilmente devastato eppur poetico.

Ringrazio di cuore Baldassare Carollo, presidente di LegaAmbiente nonchè mio stimato e caro amico,  per aver condiviso con me questa  avventura, guidandomi in un territorio a me completamente sconosciuto e  per la possibilità di avere a corredo dei miei scatti i suoi coinvolgenti testi capaci di rapire il lettore e  catapultarlo  in un vortice di sensazioni che, attraverso le sue parole  rende magicamente tangibili. 





ph Donatella Loi - testi Baldo Carollo

Vorrei scrivere questa nota per aforismi, quasi con pensieri franti, come si addice alla descrizione di un castello che si frantuma.
Calatubo è il sito più antico del territorio alcamese, il più anticamente importante, con continuità di insediamenti dalla preistoria alla protostoria, al medioevo.

Fu un centro della cultura sicana, greca, romana, araba…
Idris lo descrive nel 1154 come un grande casale arabo, pieno di vita, con campi di grano ben coltivati, con un porto di mare.














E’ abbandonato, violentato, rubato pezzo per pezzo, mattone per mattone, pietra per pietra, obliato.
Scavato clandestinamente da tombaroli perfino con ruspe.
La necropoli completamente saccheggiata, cancellata; le ossa dei morti oltraggiate, disperse.
Ci ha dato frammenti, vasi greci, coppe ioniche, kilikes, skyphoi, anfore, lucerne ombelicate, assi romani, anse con bolli di Rodi, di magistrati eponimi, che ricostruiscono indirettamente le vie mediterranee del vino, del grano, dell’olio.







Il castello di Calatubo fu edificato superbamente su una rocca a strapiombo per essere inespugnabile. 
Con una battaglia sul campo sarebbe stato imprendibile, invece è stato distrutto, quasi raso al suolo. 
Chi lo progettò non poté prevedere la venuta di un nemico così barbaro. 
Il castello di Calatubo infatti non è caduto a seguito di un’invasione dei Vandali o dei Visigoti ma per mano di una più terribile orda barbarica: l’ignoranza e l’inanità delle amministrazioni comunali.
Altra invasione dunque più subdola lo ha abbattuto, meno clamorosa, meno combattibile e più esiziale. 












Un serpentone autostradale lo irride, il tempo lo erode, l’indifferenza lo sommerge.
E muore in una malinconica eutanasia.
Sarei tentato di plaudire a questa estasi d’abbandono: c’è poesia, emblema, contrappasso, destino, la cifra della Sicilia eterna e maledetta.

Sensuale misticismo d’atarassia nell’oblio...

Ogni tanto una sparuta delegazione di pinguini in giacca e cravatta si arrampica fino alla rocca, celebra sbrigativamente un rito di vuote parole, assicura l’impegno inderogabile per salvare il castello: sono assessori, sindaci, onorevoli.
Vi dico: piuttosto che questo teatrino meglio il silenzio. Non parliamone più.






C’è almeno poesia in questa rovina senza ritorno, nel mormorare del torrente Finocchio tra una raffica di vento e l’altra nelle torri diroccate, in un’ape che sopra i fiori viola del camedrio sibila preghiere in voli trattenuti e improvvise accelerazioni circolari come un derviscio in estasi in una danza sufista.








Il castello si inabissa lentamente in una lotta impossibile contro l’eternità e cede alle ultime dolci invasioni: l’abbandono, le argentee colonie di assenzio, gli eserciti dell’ortica, della malva verde, le piante pendenti di capperi fioriti nei muri… 






Quella in fondo ad est, triangolare, è la “torre dei colombi”, sempre piena del loro tubare gutturale, come volessero comunicarci il segreto del castello con i suoni criptici di un alfabeto esoterico.








Meglio non entrare nei cunicoli, potrebbero assalirvi voci di fantasmi, di turchi, i lamenti di “u re Biddicchiu”, o il volto di medusa della maschera dello sciamano.




































Dal castello tutto è magia, apparizione iniziatica, vertigine: il mare sembra una stoffa, le montagne onde improvvisamente pietrificatesi, le colline tappeti volanti.
Trent’anni dopo del geografo Idris, nel 1184, il pio pellegrino della Mecca, l’andaluso Ibn Gubayr, naufrago in Sicilia, partendo da Palermo e diretto a Trapani, arrivato a Carini, preferì la via interna e passò per Calatubo. Quindi sostò una notte in una borgata detta Alqamah, piena di mercati e moschee: “(…) Di là partimmo e dopo un breve tratto arrivammo al castello detto Hisn allamah (castello dell’acqua termale). Scendemmo dai cavalli e ristorammo i corpi con un bagno…”.

Baldassare Carollo.